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Trento, 25 marzo 2009
Pensione alle donne: il «sequestro» di 5 anni
di Lucia Coppola, dal Trentino di mercoledì 25 marzo 2009

Fra i tanti argomenti di riflessione di questi tempi, ce n’è uno, in particolare, che mi rode da un po’. E’ la questione della pensione alle donne: ciò di cui si parla, spesso a vanvera, è il passaggio, per le donne che hanno lavorato nel pubblico impiego, da 60 a 65 anni di anzianità, come già accade per gli uomini. In effetti, la cosa non dovrebbe riguardarmi più di tanto perché io, dopo 37 anni di servizio come insegnante elementare, in pensione ci andrò dal primo di settembre.

 E tuttavia, mi scandalizza e mi deprime la leggerezza e la disonestà intellettuale con cui, ancora una volta, si decide sulla testa delle donne lavoratrici, presentando l’operazione come egualitaria ed emancipatoria. Una norma contro la discriminazione, insomma. Ma se così fosse, perché non si lasciano le donne libere di decidere: sulla base delle loro fatiche, della stanchezza accumulata, del desiderio di occuparsi finalmente un po’ di se stesse, degli affetti e degli interessi da sempre trascurati? O, per contro, della volontà di rendersi ancora utili, di continuare a far parte del tessuto produttivo, di mantenere uno status sociale ed economico. Se si é ancora forti, motivate e in salute. Se si fa un lavoro bello e pieno di soddisfazioni e non certo un lavoro usurante, come sovente lo sono lo sono anche quelli nel pubblico impiego. Insegnamento compreso.

 Nessuno infatti, già da ora, impedisce alle donne che lo desiderano di rimanere. Questa è libertà, non quella propagandata da Brunetta e da Tremonti che vogliono farci pagare una crisi di cui certo le donne italiane non sono responsabili.

 “Lavorare stanca, ma di più le donne” titolava un quotidiano, che riportava dati allarmanti e ben noti. Soprattutto a noi ragazze, più o meno giovani, che affrontiamo con coraggio e in mezzo a mille difficoltà le sfide quotidiane delle nostre vite, cercando di tenere insieme famiglia e lavoro, cura di figli e genitori anziani, di deliziosi nipotini. Che troviamo il tempo per fare volontariato e magari anche politica, che il venerdì sera facciamo un piantino di nascosto e ci facciamo consolare da qualche film romantico o da una lunga telefonata di sfogo con una paziente sorella o con l’amica del cuore. Siamo ancora noi che lavoriamo una media di dieci ore al giorno e che, secondo i dati lstat, cominciamo prima e finiamo dopo. Sette giorni su sette. Che dormiamo di meno. Che accumuliamo ansia e nevrosi. La situazione della donna italiana é peggiore di quella delle donne spagnole e greche, Che pure non se la passano benissimo. Ed è minima la differenza con l’ltalia di 30/40 anni fa.

 All’ultimo posto in Europa anche nei pacchetti di aiuti ai figli in termini di servizi offerti, dall’asilo nido al tempo pieno. All’ultimo posto anche per il lavoro fuori casa, un’esclusione che costa al nostro paese 260 milioni di euro ogni anno. E a tante donne privazioni e umiliazioni. Affermano che è necessaria un’equiparazione dell’età pensionabile, nel pubblico impiego, al lavoro maschile, su sollecitazione della Corte di Giustizia Europea, con i criteri della gradualità e della flessibilità. Criteri che forse ci permetteranno, nel frattempo, di equipararci all’Europa, anche per quanto riguarda i diritti: al lavoro, quello “buono” (non in nero e non precario o mal retribuito), all’istruzione e alla cultura, a servizi che ci consentano di conciliare i tempi del lavoro e della cura.

A un tempo libero, o liberato, che almeno in una fase della nostra vita ci permetta di guardare il cielo, di leggere un libro e di ascoltare musica. O di coccolare i nipoti. Almeno a quelle di noi che, dopo una vita di fatica, ne sentono ancora il bisogno.

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